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Pepi, il papa, e la storia lunga

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Gli avevano detto di nascondersi bene dietro i cespugli dei giardini vaticani. In realtà Pepi Merisio non voleva fare paparazzate, quel servizio era già abbastanza scoop di suo: Una giornata con il papa.

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Pepi Merisio: Paolo VI, Pasqua in San Pietro, Vaticano 1964. © Pepi Merisio, g.c.

Una cosa mai successa prima, un fotoreportage sul Paolo VI privato. Ma il segretario don Macchi temeva che la sua presenza disturbasse troppo le passeggiate oranti di Sua Santità.

E però, mentre se ne stava lì appiattato, udì l’inconfondibile voce del pontefice: «Merisio, lo so che è lì dietro! Venga pure fuori a fotografare». Non avevano fatto i conti con l’infallibilità papale.

Quei quindici anni che poi passò a seguire il pontefice ovunque, da Roma al mondo intero, l’ultraottantenne Merisio oggi li ricorda con entusiasmo e commozione. Ma forse gli appiccicarono addosso con una colla troppo tenace quell’etichetta di “fotografo cattolico” che è tutt’altro che sbagliata, ma va molto spiegata.

Cattolico, certo, forse è inevitabile per chi nasce (nel 1931) nella terra più devota d’Italia, la bergamasca generosa di santi e papi. Precisamente a Caravaggio, all’ombra di un celebre santuario.

Sì, Pepi Merisio da Caravaggio, su quella parentela col grande pittore (il più fotografico di tutti) ci ha sempre scherzato fino a un certo punto, perché Michelangelo Merisi pare avesse anche lui la O finale nel registro dei battesimi, ma la abbandonò forse per darsi un tono meno provinciale.

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Pepi Merisio: Fienagione a Cogne, 1959. © Pepi Merisio, g.c.

Ma l’immaginario di Pepi Merisio non è così irrequieto e drammatico come quello del pittore barocco. Pende più sul romanico. Le fotografie di una vita intera, finalmente raccolte in un volume dal titolo giusto, Terra amata, potrebbero essere scolpite nel marmo come quelle scene di vita contadina, lavori nei campi, vendemmie, fienagioni, che ornano i portali delle chiese medievali.

Il suo magnum opus è la sua trilogia d’esordio, Terra di Bergamo, un cantico di campagne, borghi, stagioni. La fede che percorre le sue fotografie, non solo quelle “vaticane”, è quella del popolo minuto, dei riti naturali, dei giochi eterni dei bambini, della lunga distanza del tempo umano.

Il suo conterraneo Ermanno Olmi non ha mai negato l’ispirazione che le immagini di Merisio hanno fornito al suo Albero degli zoccoli. Ma piacevano molto anche a un poeta laico come Mario Luzi.

Del resto, tutto cominciò al suono delle campane. Pepi era un sedicenne affascinato da quelle macchinette che facevano immagini, era il 1947 e c’erano circoli fotoamatoriali un po’ ovunque, si era costruito un ingranditore di compensato e scarpinava attorno a Bergamo cercando soggetti e preoccupando molto suo padre: «Non farai mica il gobbino!». Il gobbino era il fotografo da cavalletto che faceva i ritratti ai pellegrini sul piazzale del santuario, sempre curvo sotto il panno nero.

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Pepi Merisio: Una sposa a Villa d’Adda, 1965. © Pepi Merisio, g.c.

Macché gobbino. La provincia italiana era meno provinciale di quel che pensiamo, per chi aveva lo sguardo lungo. Pepi, pian piano, di sua iniziativa, si mise a leggere le riviste internazionali, a guardare il lavoro dei grandi fotografi americani degli anni Trenta, Evans, Lange, Bourke-White.

E quel giorno, al rintocco del lutto, quando entrò nella camera ardente dello zio Angelo, «non vidi la veglia funebre, ma una fotografia di Eugene Smith». Prese la fotocamera e raccontò quel funerale come un affresco antropologico.

Lo vide un grande fotografo, Luigi Crocenzi, glielo fece pubblicare su Epoca. E fu l’inizio di una carriera internazionale, i suoi reportage su Camera, Du, Look, e naturalmente Epoca, dove entrò in quello staff di fotografi (De Biasi, Lotti, Galligani, Bonatti) che restò un unicum nella fotografia italiana.

Il suo sguardo però è rimasto sempre straordinariamente coerente. Cambiava il mondo e questo non sempre gli è piaciuto, le sacrestie con gli armadietti di plastica lo hanno fatto soffrire, soprattutto ha visto crescere con amarezza l’omologazione culturale.

Merisio è molto lontano da sentimenti pasoliniani, ma il suo popolo era quello che «non aveva bisogno di didascalie», mentre oggi, ha detto in una recente intervista, «se fotografi un pellegrinaggio a Lourdes poi devi scriverci sotto: “Il parroco è il terzo da sinistra, quello con la maglietta rosa”».

Dicono che manchi il tragico, nelle fotografie di Merisio. Non è poi così vero. Nel mondo degli ultimi, dove le sue foto abitano, il tragico è l’orizzonte lontano della Storia Breve, nervosa e spesso violenta, che sconvolge la pace della Storia Lunga, faticosa, ingrata, ma umana.

[Una versione di questo articolo è apparsa su Il Venerdì di Repubblica il 2 dicembre 2016]


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