Chi penserebbe mai di registrare e conservare religiosamente fino alla morte la voce dell'amico al citofono, "ciao sono io, apri"?
Ve lo dico io. W. Eugene Smith.
Lui, forse il più grande fotonarratore del Novecento. Il più grande, sbalestrato, ciclotimico, geniale, bipolare, romantico, tragico fotonarratore del Novecento.
La sua vita ne contiene molte altre, non tutte felici. C'è una cosa di lui che ho scoperto da poco. Che non fu solo un bulimico accumulatore di immagini, come le ventunomila scattate nel 1955 e 1956 a Piuttsburgh, per il suo progetto più folle e ambizioso, che lo trascinò alle soglie della rovina. Ve ne ho già parlato qui.
Cercando notizie su quel progetto, mi sono imbattuto in un libro curioso fin dal titolo. Gene Smith's Sink, il lavandino di Gene Smith.
Lo ha scritto un giornalista e scrittore, Sam Stephenson, che per Smith ha un culto personale, e ne ha inseguito le tracce per vent'anni ai quattro angoli del pianeta, per calcare i suoi passi e rintracciare chiunque lo avesse incontrato.
Oltre a possedere il lavandino della camera oscura che fu di Smith, che ha trasformato in qualcosa a metà fra una scrivania e un altare, Stephenson pare abbia avuto accesso a uno dei più ignorati e più sorprendenti scatoloni della sua eredità materiale. Quello che contiene i nastri magnetici su cui Smith registrava ogni cosa.
Si parla di una incredibile raccolta di bobine, registrate fra il 1957 e il 1965, poi accuratamente etichettate e numerate da 1 a 1740. Quasi cinquemila ore di registrazione. Di cosa?
"Non vorrai mica ascoltarti ore e ore di gatti che miagolano?", gli archivisti avvertirono Stephenson consegnandogli il materiale. Non era una battuta. Ci sono davvero anche quelli, gatti che miagolano. Molte migliaia di ore di semplici registrazioni ambientali. Smith accendeva il registratore e lo lasciava andare. Per ore.
E poi ore e ore di programmi registrati dalla radio, conversazioni telefoniche, dialoghi con gli amici, tra cui grandi jazzisti (Thelonious Monk, per dire, visse spesso a casa di Smith, ma ci sono anche Sonny Clark, Chick Corea...), grandi scrittori (Norman Mailer, Anais Nin) e grandi sballati che frequentavano il suo loft al numero 821 della Sesta Strada.
Insomma tutto quel che risuonava nel caotico studio, ingombro fino all'inverosimile e più sporco delle stalle di Augia, dove Smith viveva e lavorava. Semplicemente, accendeva il registratore e lasciava aperto il microfoni per ore. Captasse quel che poteva. C'è anche, appunto, il fischio dell'amico che dalla strada chiede le chiavi per entrare.
Credo che nessuno prima di Stephenson abbia parlato di quei nastri, perché sono un puzzle inspiegabile. Per lo stesso scrittore restano un mistero: "Non c'è nulla che potesse pensare di fare con quei nastri, nessuno scopo particolare. Né il suo ego sembra sufficiente a motivare questo suo lavoro audio".
Perché mai Smith collezionava la colonna sonora più banale e insensata della sua vita? Ascoltando i trentun nastri etichettati "Monk", Stephenson (il suo libro parla forse più di musica che di fotografia) sperava almeno di imbattersi in qualche rarissimo e preziosissimo inedito bootleg musicale. Niente. Molte chiacchiere, divaganti, interrotte.
Era una specie di diario folle, o un esperimento artistico d'avanguardia? E perché Smith portò il registratore con sé anche in Giappone, dove lavorò alla storia su Minamata, e lo lasciò libero di registrate anche lì rumori di strada, di casa, echi di trasmissioni radiofoniche in una lingua sconosciuta?
Stephenson non ci dà una riposta e neppure una sua ipotesi. Ma la sua devozione per Smith, curiosa, aperta, quasi stuporosa, ci permette di andare un po' più a fondo.
Nel lascito di Smith ci sono pacchi di copie di lettere. Come l'Herzog di Saul Bellow, Smith scriveva in modo compulsivo e logorroico, decine di pagine per lettera, battute a macchina a interlinea uno, indirizzate a chiunque.
Stephenson si è imbattuto in un pacco di telegrammi che Smith scriveva ai conduttori di un programma radio notturno, che probabilmente ascoltava durante le sue febbrili notti insonni in camera oscura.
Pagine e pagine di considerazioni in libertà su qualsiasi cosa fosse stata detta nel programma. Telegrammi che costavano ciascuno l'equivalente di centinaia di euro odierni.
Smith era sull'orlo del lastrico, le cause per conti non pagati gli riempivano la buchetta. Se avesse avuto Internet, almeno, avrebbe risparmiato.
Eh ma già. Che cosa sono quei telegrammi se non post di un social non ancora inventato? Esagero: cosa sono quei nastri se non "storie" di un social non ancora inventato?
La bulimia acquisitiva di Smith non si limitava solo alle fotografie, dove in realtà esplose solo nel caso meraviglioso e maledetto di Pittsburgh.
Era forse una patologia della sua vita. E quelle lettere, quei telegrammi mi fanno sospettare che fosse strettamente legata a un bruciante bisogni di condividere il flusso ininterrotto dei suoi pensieri (e dei suoi gesti, e dei suoi rumori...) con chiunque fosse disponibile ad ascoltarli. Al limite, i posteri.
Sono grato a Stephenson per avermi aperto uno spiraglio così inaspettato sull'interiorità di Smith, e per avermi fatto intuire qualcosa di profondo anche sul suo modo di fotografare.
Ora vedo diversamente anche le sue foto, anche quel reportage fallito9 su Pittsburgh acquista una dimensione diversa. Un epico, eroico tentativo di includere e condividere il mondo intero.
E mi chiedo se fra le tante cose che Smith ha creato, intuito, inventato, non ci sia anche questa premonizione di un mondo di vetro, dove ogni cosa chiede di essere fissata e condivisa, dove tutte le cose sembrano ugualmente importanti, necessarie, urgenti.
La patologia o l'utopia social del mondo. Non so quale delle due.