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Fotografie interiori. Un'ipotesi su Vivian Maier

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Hesselholdt2A pagina 33 del suo romanzo su Vivian Maier, Christina Hesselholdt fa una dichiarazione in prima persona, o meglio la mette in bocca alla narratrice. La narratrice interviene spesso, nel corso del libro, che di fatto è una sorta di dialogo ininterrotto fra lei e i suoi personaggi.

Ma in queste due righe che sto per trascrivere lo fa (di sfuggita e letteralmente fra parentesi) scoprendo il suo piano. Dice: “Il mio compito è trovare spiegazioni plausibili, motivi fondanti, è la mia ragion d’essere”.

Non so se trovare spiegazioni plausibili e motivi fondanti all’agire dei propri personaggi sia sempre il compito di un narratore. Tendo a pensare di sì, ma ormai un romanzo è mille cose diverse.

Però in questo caso mi pare che i propositi della narratrice siano quasi un dovere, addirittura un obbligo. E mi spiego.

Questo romanzo porta il nome di Vivian Maier, e racconta di lei. Vivian Maier è forse la novità più clamorosa che sia accaduta alla storia della fotografia negli ultimi decenni.

La scoperta della vita e del lavoro (paradossalmente, prima del lavoro che della vita) di una straordinaria fotografa di immenso talento e inquietante fascino, sconosciuta fino a dieci anni fa, la sua esplosione come fenomeno pop, la bambinaia fotografa, la Mary Poppins con la Rollei, la sua consacrazione in decine di mostre, volumi, documentari, migliaia di articoli di giornale, ha lasciato interdetti gli esperti, ma entusiasti gli ammiratori ben oltre la cerchia degli appassionati di fotografia.

Di Vivian Maier, dopo un decennio di crescente popolarità, sappiamo praticamente tutto, tranne due cose. Ci mancano appunto una spiegazione plausibile e una ragione fondante. Le domande più banali che si possano rivolgere a qualsiasi fotografo, con lei infatti rimangono senza risposta: perché fotografava? Per chi?

Ora, ascoltatemi bene: un romanzo è sempre più cose in una, e questo non fa eccezione, dunque sarebbe banale ridurlo a una specie di archeologia immaginaria di Vivian, una sorta di surrogato del documento mancante. Questo è un romanzo sullo sradicamento, sul lutto del legame familiare, sulla incombenza di quel legame che forma e deforma ogni destino individuale.

Ma io credo di non essere un critico letterario, e da appassionato di cultura visuale e di storia della fotografia mi assumerei docilmente il compito di attraversare questo libro alla ricerca di una ipotesi su Vivian fotografa. Qualcosa che ci aiuti a illuminare un mistero glorioso, quasi mistico: una apparizione tanto splendente quanto avara di sé.

Va detto, per inciso, che di ipotesi su Vivian ne sono state proposte molte, e spesso molto imprecise e addirittura improbabili e false. Fin da quel rinvenimento del 2007 di scatoloni colmi di fotografie e di altre cose abbandonati in un magazzino di Chicago.

La costruzione del mito Vivian Maier è passata attraverso successive narrazioni improbabili, spesso infedeli, nell’urgenza di costruire un personaggio che colpisse la fantasia e soddisfacesse il bisogno di attribuire un miracolo estetico a un portento biografico. Questo per dire che non considero l’ipotesi Vivian di Christina Hesselholdt né arbitraria né illegittima e neppure semplicemente poetica.

Qual è dunque questa ipotesi? Provo a riassumerla per quel che posso, consapevole che potrebbe essere una lettura sbagliata.

La Vivian di questo racconto, che chiamerò sempre questa Vivian per distinguerla da quella Vivian di cui sappiamo poco, è una fotografa colta. Io sono convinto che lo fosse davvero, come ha dimostrato una biografia accurata e recente di Pamela Bannos, appena pubblicata in edizione italiana..

Comunque, questa Vivian cita Kertész, Man Ray, Capa, Gene Smith, Lisette Model, Helen Levitt, va a vedere la mostra epocale The Family of Man e la critica con gli stessi argomenti di Roland Barthes, vorrebbe conoscere Susan Sontag (ironia della storia, la vera Vivian visse senza saperlo per qualche tempo allo stesso indirizzo: si saranno incrociate sul pianerottolo?).

A volte il racconto ce la rende somigliante a Diane Arbus, predatrice quieta, “Lascio che la mia ombra cada sulle persone e la fotografo con i gomiti sollevati. Divento parte del loro mondo senza che lo sappiano”. Altre volte ricorda Lewis Carrol, attirata dagli specchi come la sua Alice, “attraverso di loro il soggetto passa da un mondo all’altro”.

Una fotografa consapevole, in ogni caso. Perfino presuntuosa: “Il mio lavoro è così buono che se cominciassi a mostrarlo in giro ai professionisti non avrei più pace”. Curioso, la vera Vivian Maier pare abbia detto qualcosa di molto simile, almeno secondo i ricordi di Curt Matthews, uno dei suoi ultimi datori di lavoro: “Mi disse che se non avesse tenuto nascoste le sue fotografie, qualcuno le avrebbe rubate o usate male”.

Hesselhold1

Christina Hesselholdt

Vivian, lo sapete, ha abbandonato in quegli scatoloni decine di migliaia di fotografie, molte non stampate, molte neppure sviluppate. Non è un caso così unico: un grande guru della street photography, Garry Winogrand, morì lasciando ai posteri trecentomila fotografie che verosimilmente non vide mai.

Perché lo fece? Perché non aveva soldi per stamparle? Perché non aveva tempo? Perché, come quelle due frasi, l’immaginaria e la riferita, sembrerebbero dimostrare, non considerava i posteri degni della sua opera?

L’ipotesi che ci resta fra le mani quando chiudiamo il libro è un’altra. Vivian Maier come fotografa dell’atto, e non dell’immagine. Siamo abituati a considerare la fotografia come un procedimento per realizzare un'immagine. Mentre è forse soprattutto un comportamento (mai come oggi, con l'uso conversazionale che se ne fa nell'ambiente della condivisione online), insomma un gesto, un approccio al mondo che può anche disinteressarsi di quel prodotto finale che è la fotografia stampata o proiettata.

Bene, a questa Vivian, e forse anche a quella, sembra bastare il gesto di fotografare, molto più che il prodotto. La sua fotografia è la relazione col mondo di una donna intelligente, indipendente, consapevole. Una relazione che forse si risolveva tutta, felicemente, nel momento della ricerca, dello sguardo, dell’incontro, dello scatto e non aveva bisogno di altre conferme.

Una relazione sicuramente bulimica.Da bambina mi pareva impossibile che qualcosa potesse accadere quando non ero presente per vederlo”. La fagocitazione compulsiva di frammenti di mondo placa i demoni interiori di un passato ossessionante,  quello di una vicenda familiare di legami spezzati, in una famiglia disintegrata ed esplosa come una granata, la madre accidiosa, il padre alcolista, il fratello in manicomio. “Io sono la Signora misteriosa, la Signora recisa, il cui passato è reciso”.

La fotografia, dice questa Vivian,È la sola cosa al mondo che non mi fa innervosire, quando fotografo posso risolvere qualsiasi problema, non c’è nulla di cui disperare, so cosa fare”. E ancora, rispondendo alle domande incalzanti di una delle bambine che accudisce: “Mi svuota la testa da ogni cosa. È meglio guardare fuori che dentro. Il mondo è piu divertente del mio cervello. Vedo cose in continuazione”.

Ma questo della fotografia come rifugio e come fuga forse è uno schema psicanalitico forse insufficiente. Ogni artista è quel che è stata la sua storia. Gli artisti sono saturnini e maledetti per convenzione, per principio.

Ma Vivian non volle diventare artista. E neppure professionista. La vera domanda, il vero perché del libro, sta qui. E la risposta suggerita è singolare, inquietante. Riguarda la possibilità che la fotografia, medium della condivisione per eccellenza, il grande strumento tecnologico che ha reso possibile all’umanità scambiarsi non solo parole ma anche sguardi, possa essere un linguaggio esclusivamente interiore, ina esperienza incomunicabile.

Nel romanzo, Vivian ha paura che le foto rivelino troppo di chi le scatta. La vera Vivian, sapete, teneva i suoi libri con il dorso verso il muro perché nessun visitatore occasionale della sua camerette chiuse sempre con grossi lucchetti vedesse che cosa leggeva, le vedesse dentro l’anima. “Nessuno deve vedere la mia stanza. Nessuno deve vedere il mio corpo. Nessuno deve vedere la mia famiglia”. Trovo bellissima questa progressione in tre tappe, è forse la sintesi di tutto il libro.

C’è da chiedersi che cosa penserebbe questa Vivian Maier del suo successo postumo. Be’, Christina ce lo dice. La rende consapevole (come probabilmente non è stata) della vendita all’asta delle sue cose. Le fa dire, poco prima di morire: “Che fine hanno fatto i miei averi, dove posso andare a prenderli? Mi ripugna il fatto di non poter più rimediare, tutte quelle dita sozze nella mia vita. Non le vorrei indietro, le mie cose, nemmeno se potessi riaverle”.

Non le ha riavute. Le abbiamo noi. Ma forse non ci raccontano più veramente di lei. Forse una Vivian Maier possiamo solo immaginarla, ipotizzarla, come ha fatto Christina.


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