Per quanto scorrano così veloci da illuderci di non perdere neanche un istante del gesto di una mano, della corsa di un treno, per quanto crediamo che ci mostrino lo spazio che si dispiega nel tempo senza salti o interruzioni, sappiamo benissimo che i ventiquattro fotogrammi al secondo del cinema sono fotogrammi.

"Preoccupato per la salute dell’amata, l’anarchico iscrive Natasha a un concorso di pittura e la convince a partire per seguire la mostra, allestita in un’altra città." © 2017 Archivio Fittipaldi / Partenope Film, Napoli
Cioè sono singole fotografie, ciascuna delle quali “contiene” un tempo infinitesimale, i centesimi di secondo della sua esposizione, ma immobile.
Mentre fra l’una e la successiva c’è, ineliminabile, un vuoto che non è stato fotografato.
Quel vuoto, la nostra mente lo ricostruisce a nostra insaputa, ed è questa la magia del cinema che fa vivere i corpi immobili nel tempo congelato, e produce un surrogato credibile di vita.
Ma è pur sempre un album quello che il proiettore sfoglia per noi; non è un continuum ma una sequenza di immagini discrete, una foto-storia, quella che la luce dispiega sotto i nostri occhi.
Tra il fotoromanzo e il cinema, insomma, c’è forse solo una differenza di ritmo. Potremmo definire il fotoromanzo un film nel quale i fotogrammi sono estremamente diradati, e i vuoti fra loro, da riempire mentalmente, molto grandi.
Ma la nostra mente ce la fa lo stesso. Cade l’illusione del movimento, ma non cede il senso della storia.
Ho parlato di fotoromanzo, perché quello strepitoso format di letteratura visuale popolare era direttamente figlio del cinema, di cui mandava in edicola le storie cosicché le massaie e le sartine se le potessero portare a casa e ri-proiettare mentalmente quante volte volessero.
Ma avrei potuto parlare anche delle foto-storie inventate dai grandi rotocalchi americani: sì, quelle di Life che resero celebre W. Eugene Smith, ma ancora di più quelle di Look su cui si fece le ossa un ragazzino sveglio di nome Stanley Kubrick, che poi alla fine fece il salto inverso e dalle “storie spezzate” della fotografia risalì alle “storie fluide” del cinema e lì ci regalò capolavori.
Del resto anche il fotoromanzo popolare, quello di Bolero Film e delle edizioni Lancio, presto si staccò dalla dioendenza col cinema e creò il suo proprio stile narrativo.
Fatto, appunto, di pieni e di vuoti. Di immagini pregnanti e di collegamenti lasciati alla fantasia del lettore. Qualcosa del fascino di questo modo di raccontare dovette intuirlo Leo Longanesi, che nel 1950 pubblicò un eccentrico romanzo, Una vita, di cui sosteneva si fosse perso il testo originale, rimanendoci solo le illustrazioni con relative didascalie. Recuperatelo: non solo di quel romanzo borghese seguirete benissimo la storia, ma vi sarà chiara perfino l’ideologia...
Nonostante i molti eccellenti studi sul genere, non mi pare che questo aspetto specifico ed esclusivo del fotoromanzo, la sua narrazione sincopata diciamo, sia stato molto approfondito. Mi piacerebbe che qualcuno (Silvia Albertazzi, ci fai un pensierino?) studiasse le analogie fra la struttura intermittente del fotoromanzo e lo stile di qualche narratore del Novecento (Dos Passos, per esempio?).

"Colpita dall’uomo che ha salvato, si prende cura di lui amorevolmente." © 2017 Archivio Fittipaldi / Partenope Film, Napoli
Tutte queste cose naturalmente mi vengono in mente mentre sfoglio un libro, Fotoromanzo napoletano, presentato in copertina dallo scrittore Maurizio De Giovanni ma curato e composto in realtà dalla storica del cinema Lucia Di Girolamo.
Ci trovate le immagini di una stagione esuberante e dimenticata del cinema italiano, quella Cinecittà partenopea fatta di produzioni familiari e artigianali, di trame improbabili ma travolgenti, al sapor di sceneggiata.
Ci troverete in particolare le fotografie di scena di un film perduto, Dov’è la mia vita, girato nel 1919 dalla Partenope Film dei fratelli Troncone (Roberto, il regista, e Guglielmo, l’attore, che negli anni Trenta diventerà un bravo fotografo). All’epoca, fu un successo. Oggi è un rimpianto: nessuno sa dove sia finita la pellicola.
Ci resta però, curiosamente, un pacco di sessantadue fotografie. Che non sono stampe di fotogrammi, son o fotografie accuratamente costruite e posate per la fotocamera fissa, anche se utilizzano gli stessi attori e le stesse scenografie del film.
Ma questo capita anche oggi, nella fotografia di cinema. Ed è bello, quando si può, confrontare il linguaggio della fotografia e quello del film quando si impegnano a raccontare la stessa cosa: per constatare quanto immensamente diversi siano.

"I due sono sempre più vicini, sboccia la loro passione." © 2017 Archivio Fittipaldi / Partenope Film, Napoli
Per quanto riguarda Dov’è la mia vita, però, non sappiamo bene a cosa servissero quelle foto: se per le locandine, o magari solo per l’album (lo storyboard, diremmo oggi) da presentare in anteprima alla prefettura per ottenere il visto di censura.
Grazie alle recensioni sui giornali dell’epoca, e al poco che riferiscono sulla trama fantasmagorica di quel film (un rivoluzionario russo in crisi, una pittrice innamorata, un tradimento, un pentimento...), Di Girolamo ha riordinato le immagini e ricostruito qualche didascalia.
Fate la prova, leggete, anzi guardate quel film a scorrimento lentissimo. Vi giuro, scorrerà. Si animerà. No, non capirete tutto, ma quel che non capirete lo immaginerete.
Non è affatto certo che la trama ricostruita dalla vostra fantasia sia quella che era in testa al regista. Ma vi assicuro, una storia l’avrete.

"L’ultimo bacio del marito si perde sulle labbra di una donna che non è mai stata veramente sua." © 2017 Archivio Fittipaldi / Partenope Film, Napoli
E allora, quanto è azzeccato quel titolo... Dov’è la mia vita? Dove è andata a vivere davvero la storia di un film, se continua a esistere anche quando le migliaia di fotogrammi del rullo si riducono a sessantadue inquadrature?
Dove se non nella nostra mente, che costruisce incessantemente collegamenti di senso, relazioni tra un prima e un dopo, una causa e un effetto, un post hoc e un propter hoc?
I grandi narratori forse sono quelli che piazzano i vuoti giusti fra quel che ci raccontano loro, e quel che ci aggiungiamo noi.
E la prossima volta che sfogliate una storia fotografica (ma sì, ogni reportage in fondo è una storia) sappiate che forse il meglio di quel che ci offre sta negli spazi bianchi fra una fotografia e un’altra.